Come avanzare verso la morte?
- Pierluigi Casolari
- 6 feb 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Nella tradizione buddista la morte è un oggetto centrale della meditazione. Non solo per l'ovvio motivo della reincarnazione. Ma perché essa è l'evento drammatico e traumatico che interrompe la vita. La morte è il momento in cui ogni attaccamento perde significato. Si arriva alla vita nudi, senza oggetti e senza pensieri. E la morte ci riprende allo stesso modo: senza averi e senza possibilità di fare più nulla. Dal punto di vista buddista, la morte è un processo nel corso del quale la parte permanente di noi (la buddità? Il soggetto che conosce?) si distacca definitamente dal proprio corpo. Tutto quello che riguarda il nostro corpo, i nostri possessi, i nostri pensieri, la nostra identità è destinato a dissolversi. Anche nel buddismo che crede nella reincarnazione. A restare forse e a reincarnarsi è un principio assoluto che non ha niente a che vedere con la nostra identità individuale ed è anche un qualcosa di cui - per quanto alcuni monaci e illuminati ritengano di avere memoria - non sarà comunque parte della nostra prossima vita.
Anche nella tradizione stoica la morte è un processo. E' un processo che procede linearmente ogni giorno. Ed è per questo che gli stoici invitano a meditare sulla morte ogni giorno. Ogni respiro è un passo in avanti verso la nostra fine. Quando ispiro mi rendo conto di essere vivo, quando espiro mi rendo conto di avere fatto un passo in avanti verso la fine del mio corpo fisico e della mia vita. Una buona morte è il premio per una vita vissuta con saggezza, secondo l'imperatore stoico Marco Aurelio. Ogni giorno quando vado a letto, saluto i miei cari come se non dovessi rivederli, ripeteva nelle sue meditazioni sempre l'imperatore saggio.
Nello stoicismo, ogni evento che ci capita può essere reinterpretato. Quello che conta non sono i fatti in sé, ma il modo in cui le interpretiamo. E questa pietra miliare del pensiero, che poi è diventata la base di tutta la psicoterapia, sembra darci una prospettiva nuova sulla morte. Ma come giustamente riflettevano gli stessi stoici, la morte è la fine di ogni reinterpretazione della realtà. Di fronte alla nostra fine, che arrivi all'improvviso o dopo una lunga passione, la reinterpretazione dei fatti è un'arma spuntata.
La prospettiva buddista forse ci da qualche strumento in più. Se grazie ad una costante pratica meditativa riesco progressivamente a dis-identificarmi dal mio corpo, poi dai miei pensieri e a raggiungere uno stato di profonda (il più profondo possibile) equanimità, allora nel momento di avvicinamento alla morte potrei riuscire a essere il più possibile spoglio di attaccamento. Potrei essere nello stato di grazia di non aggrapparmi e lasciare andare. Forse è questo lo stato di grazia a cui possiamo aspirare durante il trapasso?
Mia mamma era una persona semplice. Non ha potuto studiare, perché ai suoi tempi e nel paesino in cui è cresciuta non c'era possibilità di studiare. Non praticava e non meditava. E ha vissuto tutta la vita interpretando con amore il ruolo di mamma e moglie. Negli ultimi mesi della sua vita, ho potuto notare che stava progressivamente (e forse inconsapevolmente) lasciando andare tutto. Aveva accettato di non poter stare in casa da sola. Aveva accettato di non avere controllo sulla maggior parte di quello che le accadeva. Era felice di vederci. Non c'è mai stato momento in cui ci ha visto e non le si sono illuminati gli occhi. Soprattutto quando vedeva gli adorati nipoti. Ma era come se non fosse aggrappata a quell'amore. Se ci vedeva le si apriva il cuore. Se non ci vedeva il pensiero dei figli e dei nipoti le riscaldava comunque il cuore. Anche la casa e il giardino dove poteva passare le ore a sistemare e a risistemare non erano più qualcosa a cui era aggrappata. Se c'erano bene. Se non c'erano bene uguale. Quando è arrivato il momento, non solo per lo stato cognitivo deteriorato, ma perchè aveva praticato il non-attaccamento, ha perso coscienza e ha lasciato accadere le cose. Il suo corpo terreno poi ha resistito a lungo. Ma sua la mente aveva già lasciato andare. Qualche momento di paura, ma forse erano solo convulsioni fisiologiche e poi ha perso la coscienza. E' riuscita a sorridere e a stare tranquilla fino agli ultimi momenti di consapevolezza. Poi la morte è arrivata. E non è mai una passeggiata. Il corpo ha lottato. Ha respirato affannosamente. Ma mia mamma non c'era più. Aveva già lasciato andare. Prima di perdere coscienza, non ci ha guardato supplicandoci di fare il possibile per salvarla. E' stata serena salendo sull'ambulanza, si guardava intorno, con tranquillità e fiducia. Poi ha perso coscienza, circondata da amore e con un senso minimo, sottile eppure impalpabile di fiducia verso il mondo intorno a lei. Il premio di una vita dedicata agli altri e all'amore e ad avere praticato una graduale accettazione è stata una morte serena. Anche mio padre ha praticato con grandi dignità l'accettazione, ma il suo ego era più forte e fino all'ultimo ha lottato. Ancora pochi minuti prima di entrare nella fase critica del trapasso, ci aveva chiesto di provare a curarlo meglio di quanto (forse) non stavano facendo nell'ospedale dove era ricoverato. Il suo trapasso è stato una via crucis.
Pensando al processo di morte dei miei genitori, mi chiedo se io sto imparando a morire. Ogni giorno sono più pronto? Mi sto preparando per l'esame finale? Penso ogni tanto a come sarebbe, se oggi fosse l'ultimo giorno e mi chiedo anche se sarebbe diverso rispetto a ieri. La verità è che sarebbe come ieri. Ho così tante cose da fare e da completare. Devo migliorare il rapporto con la mia compagna. Riuscire ad amare in maniera incondizionata mia figlia. Trovare finalmente il mio daemon (non sono sicuro di averlo trovato). Devo salutare tutti. Devo fare ancora certe esperienze. Vorrei togliermi ancora qualche soddisfazione. Vorrei insegnare alcune cose al mio figlio maggiore. Vorrei scrivergli qualcosa. Vorrei riuscire ad amare le persone per quello che sono, invece che per quello che vorrei fossero. Vorrei completare il libro della mia vita e poi una volta letto e ripassato tutto, accostarmi al momento finale. Ma è veramente così? Una volta fatta questa o quella esperienza, sarei veramente pronto? O come dicono i buddisti sarà invece come bere acqua salata, e ritrovarmi con più sete più brama di prima? Dopo che avrò scritto belle parole per mio figlio, dato un abbraccio a Michela (la mia compagna), sarò veramente pronto o ci sarà piuttosto qualcos'altro da fare? Penso a questo e mi rendo conto che mi sto aggrappando. Penso, ancora alla morte e mi rendo conto che non ho fatto quello che avrei voluto fare. Che sono pieno di rimpianti, e qualche rimorso. E allora vorrei, vorrei, vorrei. Così penso ad una vita in cui invece riesco a fare alcune di quelle cose di cui ora ho rimpianto. E mi immagino nuovamente di fronte alla morte. Sarebbe meno doloroso, sarei più completo? Forse si, ma più probabilmente: forse no. Sarei a punto e a capo. Avrei comunque ancora qualche rimpianto e forse qualche rimorso in più. Magari qualcosa che avrei fatto seguendo istinto e pulsione, avrei potuto risparmiarmelo e avrei vissuto più serenamente. Chissà? E se invece di voler fare, semplicemente osservassi quello che succede come se fossi su un treno in corsa e la vita fossero paesaggi che scorrono fuori dai finestrini? Sarebbe impossibile attaccarsi ad essi. Come potrei attaccarmi a qualcosa che sfugge continuamente? Forse è questa l'equanimità. Una sorta di distacco, non indifferenza, rispetto a quello che accade. Penso allora che l'equanimità potrebbe essere un modo più efficace per arrivare al momento del trapasso. Guardo i tralicci scorrere di fianco ai binari del treno, si alzano e si abbassano. Gli alberi immobili scorrere sul finestrino, scomparire dopo pochi istanti. Automobili sulle stradine che incrociano i binari: altre vite, altri impegni, altre incombenze. Nel frattempo il treno prosegue la corsa. Nulla di quello che vedo fuori è sotto il mio controllo. Nulla di quello che vedo è permanente. Rimane un attimo e poi scompare. E il fatto di essere dentro al treno, mi impedisce anche il solo credere di scendere e fare qualcosa per fermare quella persona, fermarmi in quel bar, a guardare quell'albero, a conoscere quella persona.



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