Adattarsi al mondo vs adattare il mondo
- Pierluigi Casolari
- 10 apr 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Mi capita talvolta mentre medito - con la tecnica del whitnessing tibetano, ad occhi aperti, con ricettività verso tutto quello che emerge dai suoni, alle immagini, ai pensieri - che ad un certo punto perdo "grip" con la realtà sensoriale e mi ritrovo nelle mie fantasie mentali. Mi accorgo di essermi perso nelle mie fantasie, in quanto la mia consapevolezza sensoriale diventa più nebulosa, più sfuocata. Magari i suoni che prima venivano percepiti chiaramente vanno sullo sfondo, oppure la forma e i colori degli oggetti, non sono più "salienti". Non è tanto un fatto di nitidezza e qualità sensoriale ma di attenzione. L'attenzione cala, il mondo esterno diventa meno "rilevante", la mente evade nei propri mondi di fantasia. Poi ci si risveglia e si ritrova il "collegamento" con il mondo reale e sensoriale. Sembra che ci sia un rapporto inversamente proporzionale tra fantasie del pensiero, rimuginio mentale e senso di connessione con la realtà. Maggiore è il senso di connessione con la realtà sensoriale, con le persone con cui siamo, con le attività he stiamo svolgendo, minore è la fuga dalla realtà tramite rimuginio e fantasie. Minore è il senso di "grip" con la realtà e maggior è il senso di estraniamento a cui reagiamo con pensiero, fantasie. Quando il senso di estraniamento avviene con le persone, il rimuginio diventa approccio giudicante. E questo aumenta ulteriormente il senso di estraniamento, allontanamento e disconnessione con realtà e persone.
Questa considerazione mi spinge a riflettere su alcuni punti:
Il senso di estraniamento e disconnessione è necessariamente un fatto negativo?
Come faccio ad aumentare la mia capacità di connessione con la realtà?
Provo a usare la metafora della meditazione per analizzare il punto 1. Tecnicamente la disconnessione dalla realtà - se temporanea e se non produce danni - non è di per sé negativa. Potremmo trattarla come trattiamo un qualunque pensiero e fantasia che ci distrae, in seduta di meditazione. Non appena ci accorgiamo di esserci distratti, torniamo al respiro o all'osservazione o al testimone, senza giudicare e giudicarci. Quindi in un certo senso possiamo provare a uscire dal senso di disconnessione, riconnettendoci, come un vecchio modem a 56kilobit. Potremmo gestire le nostre riunioni e i nostri incontri, come se fossimo in seduta. Ovviamente non è sempre fattibile, perchè molto spesso il senso di estraniamento è maggiore quando abbiamo a che fare con situazioni reali e persone. E ad ogni estraniamento ci perdiamo dei pezzi, di conversazione, di partecipazione, di vicinanza.
Tuttavia potremmo intendere il senso di disconnessione - soprattutto se si ripete - come un sintomo di qualcosa che tocca corde più profonde. Forse quello che sta accadendo davanti ai nostri occhi non ci interessa, forse c'è una parte di noi che ha paura di soffrire e quindi sfugge alla realtà, forse quelle persone non ci piacciono. Mi è capitato di sentirmi disconnesso con determinate persone per molto tempo. Ho pensato a lungo che il problema fossi io e seguendo i dettami della mindfulness e del qui e ora mi sono sforzato ricentrarmi e pensare che quella fosse l'unica realtà del momento, e che dunque non dovevo stare nel rimuginio, giudicante ed estraniato. Questa strategia ha funzionato a breve termine. Ma troppo a breve termine. Mi disconnetto, mi riconnetto, poi mi disconnetto di nuovo e mi riconnetto. Allora, dopo parecchi mesi ho iniziato a chiedermi se la mia distrazione non fosse in realtà un meccanismo di difesa, un meccanismo di difesa che sostanzialmente mi faceva "uscire dalla stanza" per non dire alle altre persone che quello che io pensavo di loro era che stavano facendo, pensando e progettando cose senza senso - o almeno questa era l'opinione evidentemente di almeno una parte significativa di me. Certo seguendo alla lettera il dictat del buddismo zen bisogna accettare la realtà per quello che è, stare nel qui e ora, vivere pienamente. Ed è evidente che questa è una strategia potenzialmente rivoluzionaria. Ma è un approccio che non offre strumenti per migliorare la propria posizione. Perchè parte dal presupposto che bisogna farsi andare bene, ringraziare e adattarsi al qui e ora qualunque esso sia. Una strategia alternativa potrebbe essere invece quella del concepire la ripetizione di un pattern come un sintomo di qualcosa di profondo. Se un pattern si ripete costantemente, se costantemente io con una persona mi disconnetto, se costantemente mentre medito penso ad un determinato progetto, allora forse qualcosa o qualcuno mi sta parlando e mi sta dicendo che quel pattern è rilevante.
A quel punto mi trovo due strade. E vengo così al punto 2 - cioè come migliorare il senso di connessione con la realtà. La prima strada è quella di cambiare strada, prendere per le corna il pattern e ascoltarlo realmente. Come? Beh per esempio iniziando a osservare se il senso di disconnessione c'è sempre o solo con alcune persone, durante alcune attività. Se c'è soltanto in alcuni casi, allora forse quelle situazioni non fanno per noi e forse dovremmo ragionare sul cambiare qualcosa. La seconda strada prevede di fare uno sforzo di reinterpretazione della situazione. Non si tratta solo di fare come ci dicono i fan della mindfulness, cioè di vivere il presente, ma di reinterpretarlo completamente. Potrebbe essere utile da questo punto di vista un approccio cognitivista. Per esempio ridefinendo completamente il senso di noi all'interno di uno specifico contesto. Gli stoici erano bravissimi in questo. Loro dicevano che non conta l'evento ma il modo in cui lo reinterpretiamo, neanche come lo viviamo - mindfulness. Ma come lo inseriamo in un contesto più grande. Per esempio potrei disconnettermi da una situazione perchè quello che accade non è in linea con l'immagine che ho di me. I fan della mindfulness potrebbero dirti, che però quello che accade è l'unica cosa che esiste e che se la vivi senza preconcetti allora non ci sono aspettative e se non ci sono aspettative non c'è delusione. Vero, sfortunatamente tuttavia è impossibile non integrare quello che ci succede all'interno di un determinato senso e concetto. Gli stoici ci invitano, ed è questa la grande differenza rispetto al buddismo-approccio mindfulness, invece a reinterpretare il quadro di riferimento: forse non ti piace quello che stai facendo perché incoerente con l'immagine che hai di te, ma sei proprio sicuro che l'immagine di te è coerente con il ruolo che sei chiamato a svolgere in quel momento. Non l'attività, il ruolo?
Se sei dentro al ruolo di padre devi educare, proteggere, incoraggiare i tuoi figli, non devi chiedere loro conforto per una giornata negativi al lavoro. E magari nei avresti un gran bisogno di essere ascoltato e magari ti disconnetti dalla situazione perché è frustrante in quel momento dover incoraggiare altri, quando sei tu la persona che ha bisogno di essere incoraggiata e via dicendo. Ecco gli stoici ci insegnano invece che il "reframing" è una strategia interessante, differente rispetto al vivere il qui e ora. Non è l'unico approccio, quando ne il qui e ora, ne il reframing funzionano, probabilmente è il caso di tornare alla prima opzione che è quella di modificare non sé stessi, ma il contesto in cui si opera, cercando di adattare il mondo a sé e non viceversa



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