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Cantico della generazione X

Aggiornamento: 20 lug 2024

A noi della generazione X non hanno insegnato che esiste uno spazio molto lungo tra un obiettivo e l'altro. Per i nostri genitori - che sono cresciuti negli anni 60 - quella che ci serviva era una direzione chiara per raggiungere obiettivi altrettanto chiari e tenere la testa sopra le spalle. E così a noi, che venivamo educati come bravi soldatini, hanno insegnato tante nozioni che dovevano servirci per trovare un buon lavoro, migliore di quello dei nostri genitori, e quando arrivava il momento giusto mettere la testa a posto, farsi una famiglia e vivere in condizioni migliori quelle in cui erano vissuti i nostri genitori. E così abbiamo passato i nostri primi 30-40 anni assecondando inconsciamente quelle richieste e quelle indicazioni, replicando quel modello.



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Siamo stati bravi nel mondo del lavoro. Ci siamo posti grandi obiettivi e siamo diventati imprenditori, manager, persone di successo. Ah il successo.... non era nei piani dei nostri genitori, ma quanto lusingava le nostre personalità cresciute sentendo parlare di obiettivi, riconoscimento sociale e carriera. E così lo abbiamo perseguito con grande perspicacia. E il mondo che diventava sempre più pluralistico e diversificato sembrava garantire a ciascuno un po' di luci della ribalta. Poi abbiamo formato le nostre famiglie - abbiamo messo la testa a posto - come ci era stato detto. E quelli bravi lo hanno fatto prima degli altri. E poi sono arrivati i figli e i problemi.


A noi della generazione X non era stato insegnato che tra un obiettivo e l'altro ci sono momenti molto lunghi. E non eravamo preparati a questi momenti. Siamo diventati il target perfetto di Sky, Netflix e poi tutti i social che riempivano i buchi tra un obiettivo e l'altro, tra un dovere e l'altro, tra una carriera e l'altra.


Per i nostri genitori che sono cresciuti poco dopo la guerra, le emozioni erano un lusso che non si potevano permettere e così ci hanno insegnato che anche noi dovevamo farne a meno. E così quando le manifestavamo, ci dicevano che erano sbagliate e che se stavamo li con loro, eravamo sbagliati anche noi. A qualcuno più fortunato è stato detto qualcos'altro, ma generalmente gli abbracci e i baci non sono arrivati copiosi. E così quando siamo stati noi ad essere figli, non sapevamo cosa fare, se indulgere negli abbracci o dare la direzione, se insegnare nozioni o a vivere nella complessità di emozioni, sentimenti, pulsioni e pensieri. Avremmo voluto insegnargli questo, ma prima avremmo dovuto apprenderlo noi.


Poi ad un certo punto qualcuno ha acceso la luce, forse il Covid, forse la crisi di mezz'età, forse una separazione, un divorzio, una depressione. E così ci siamo trovati a mettere il dito su quella ferita, dentro a quel vuoto. E ci è sembrato che non ce ne fosse uno, ma mille. Abbiamo scoperto intorno a noi e soprattutto dentro di noi, una valanga di sofferenza. L'insicurezza, la mancanza di senso, l'incapacità di amare, di avere compassione e le ferita interiori. Da qualche parte dentro di noi - ci è stato detto - che esiste un fanciullo interiore pieno di sofferenza. Abbiamo scoperto le ferite dei non amati, dei non accettati, dei rifiutati, degli abbandonati, dei traditi. E con gli occhi annebbiati dalle lacrime, abbiamo scoperto che quelle ferite risuonavano in noi, come parole che ci descrivevano persino troppo bene.


I nostri genitori ci hanno dato la direzione, ma poi non hanno saputo accoglierci, accettarci, ci hanno insegnato a stare al mondo in un mondo dove si deve sopravvivere, ma noi ci siamo trovati ad abitare un mondo in cui si poteva vivere - non solo campare. Poi invecchiando, loro hanno ammorbidito il loro cuore. E noi ora li guardiamo con compassione, mentre abbracciano i nostri figli. Sono nonni realizzati. La natura ha fatto il suo corso e ha smussato le loro asprezze. Ma a noi questo non basta. Le ferite ce le abbiamo, comunque e dolgono. E siamo arrabbiati. Quando ci siamo accorti di essere pieni di ferite interiori, di bambini che soffrono dentro di noi, abbiamo iniziato a leggere libri, a fare corsi, ritiri, meditazione, yoga, psicoterapia. Ed è così che è iniziata la seconda fase della nostra vita. Sapevamo lavorare ma questo non bastava. Sapevamo raggiungere obiettivi. Però una volta raggiunti gli obiettivi, non sapevamo cosa fare. Era quello spazio tra un obiettivo e l'altro a complicarci la vita. Abbiamo scoperto con sgomento che la vita non erano gli obiettivi ma quello spazio.


Allora è iniziata la titanica e disumana lotta. La lotta intestina tra noi e noi stessi, tra il bambino ferito, il modello anaffettivo dei genitori e l'adulto che avremmo voluto al nostro fianco quando eravamo bambini e che ora vorremmo essere. Ci sforziamo fino allo spasmo di diventare quell'adulto, ma non appena prendiamo fiato torna il vecchio sé, con la sua durezza, la sua chiusura, il bambino ferito che ci fa reagire istericamente, narcisisticamente, egoisticamente. Ora siamo perennemente in bilico tra essere genitori ed essere bambini. Siamo ancora i bambini che non abbiamo potuto esprimere con tutte le emozioni, i sogni, le sciocchezze, le risate fino a farsela addosso, vorremmo essere quei bambini con le nostre compagne e persino con i nostri figli, per riprenderci quello che non ci è stato dato. Ma siamo anche i genitori che non vorrebbero fare la stessa cosa ai loro figli che hanno subito, anche se poi ci finiamo a piedi pari, più o meno sistematicamente. E anche quando facciamo il contrario, siamo ancora impregnati di quel modello. Ci stiamo dando un bel pugno in faccia.



Avete presente la scena di Fight Club quando Tyler Durden lotta contro sé stesso. Noi siamo esattamente come lui. Non ci piace chi siamo e non riusciamo a essere chi vorremmo. Non ci vogliamo accettare e non ci possiamo cambiare. Per ogni ferita che bendiamo ne salta fuori un'altra. E così iniziamo a bendarci con forza e con sempre meno compassione. Passiamo furiosamente da una terapia all'altra, da un metodo all'altro, da un libro all'altro, da un intrattenimento all'altro. Cerchiamo nel partner il genitore che non ci ha dato amore che volevamo, la convalida di cui abbiamo bisogno e che ci manda avanti ancora un giorno, fino al bisogno successivo. Siamo come ciechi che brancolano nel buio in uno spazio pieno di ostacoli, mettiamo avanti le mani, sentiamo il muro, ci fermiamo e cambiamo direzione. Incontriamo un altro muro, ci spostiamo, un altro ancora. Ma dove si trova la strada? C'è una via di uscita, o rimarremo per sempre qui a brancolare? Quando guardi dentro - veramente dentro - scopri che non ci sono obiettivi, ci sono solo spazi. Spazi tra i pensieri, tra le parole, tra le cose di cui ci siamo circondati, spazi tra le tue conquiste.


Siamo come Truman Burbank del Truman Show quando arriva alla fine del grande palcoscenico che Christof, il geniale e psicopatico regista dello show, gli aveva allestito. La barca con cui voleva scappare si incaglia sulle pareti disegnate del suo piccolo mondo. Sembra proprio che non si possa andare via da chi si è, non puoi fuggire da te stesso nemmeno se corri come Eddie Merckx, come dice Ivan Benassi, il protagonista di Radio Freccia..


Eccoli li i nostri confini, i confini del nostro sé. Eccome se esistono, altro che impermanenza. Sembrano invece piuttosto solidi. Qualcuno più fortunato, ad un certo punto scopre una via diversa, non è una via di uscita, sembra però un sollievo, e non ci promette di essere migliori, ma forse di trovare la pace, il suo nome è compassione. Non quella verso gli altri, ma quella che non sapevamo di avere: verso noi stessi. E allora vediamo questa titanica battaglia, ci osserviamo in questa disperata lotta, capiamo che non ci può essere nessun vincitore se a darle e a prenderle sei sempre tu, allora ci guardiamo con compassione, vediamo quella piccola creatura che combatte contro qualcosa di molto grande, il cuore si gonfia come se dovesse scoppiare, il respiro si fa più profondo, pieno di amore, gli occhi si riempiono di lacrime, la tensione si allenta, vorremmo abbracciarla, vorremmo dirle che andrà tutto bene. Se siamo fortunati possiamo avere un'intuizione e capire che anche quella stessa lotta titanica e disperata non era che un sintomo delle nostre ferite, non era che una scena della parte che ci hanno insegnato a recitare

 
 
 

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